La contestualizzazione della riflessione teologica
La teologia morale non si ferma all’analisi dei problemi e alla loro valutazione, ma porta a sviluppare soluzioni per la pratica (azioni e non solo valori, atteggiamenti, motivazioni), perchè la verifica per la teologia morale sono le decisioni e le azioni nella vita personale e civile. Si tratta di combinare insieme il rilievo pratico e la serietà teoretica1.
Del resto il riferimento intrinseco all’azione storica e culturale, oggetto dell’analisi sociale, è compreso nel fondamento teologico della missione della chiesa. Si tratta non di semplice opera di cultura che anche nella Chiesa potrebbe essere coltivata, ma della condizione imprescindibile perché la prassi dei credenti non pecchi di formalismo, e quindi di moralismo.
“Considerare attentamente il corso degli avvenimenti per discernere le nuove esigenze dell’evangelizzazione”(CA n.3) è un atto di discernimento sociale che comprende in sé tutte le forme di conoscenza integrate nella riflessione teologica.
Ciò significa che le strutture istituzionali e gli attori sociali ivi implicati necessitano di seria analisi dal punto di vista delle differenti discipline e dell’esperienza pratica. “Considerata ala complessità dei problemi è ovvio che le varie discipline debbano collaborare mediante una interdisciplinarietà ordinata…nel rispetto delle competenza specifica di ogni livello del sapere ”(CV 30). Per questo la teologia morale, e in particolare sociale, come discorso che pretende di essere rilevante per la chiesa e per la società, si confronta con le scienze sociali 2.
La stessa riflessione teologica si dà sempre in un contesto culturale. La fede è mediata dal contesto che essa interpreta nella sua verità profonda: la stessa fede non può dirsi senza il rapporto con esso. Si tratta, in altri termini, dell’esigenza del principio dell’incarnazione. La verità di Dio ha la figura di una promessa istituita mediante la storia: la storia Gesù, la storia d'Israele alla quale Gesù obiettivamente rimanda, la storia della Chiesa apostolica mediante la quale soltanto la verità del Risorto viene, a parola. La stessa tradizione pratica della Chiesa successiva all'età apostolica ha il rilievo di mediazione necessaria in ordine all'accessibilità della verità di Dio rivelata a ogni uomo. Non si può separare questione della verità e questioni della pratica socioculturale3.
L’attenzione alla mediazione dei contesti culturali esprime l'ineludibile necessità della comunicazione e potenzialità culturale della riflessione teologica, quindi la sua stessa pertinenza e ragion d'essere. «Il lavoro teologico è sempre, costitutivamente, interdisciplinare: variano, a seconda dei grandi campi disciplinari (storico, sistematico, pratico), le scienze che concorrono alla costruzione del discorso teologico. Dire "costitutivamente" interdisciplinare, parlare di scienze che "concorrono" significa superare il modello di collaborazione in cui la teologia dialoga e si confronta con le altre scienze, come se essa fosse già previamente costituita. Al contrario, essa si elabora secondo una metodologia propria (legata essenzialmente alle fonti, ai luoghi teologici, alla dimensione ecclesiale, alla prospettiva di fede), che tuttavia non si costruisce, né potrebbe, su direttrici parallele alle altre discipline (teoria - da respingere - del "raddoppio"), ma ne percorre in modo originale e specifica (fides) gli stessi sentieri investigativi (quaerens), al fine di cogliere l'intelligenza del proprio essere ed agire (intellectum)»4. Si tratta della «necessità» del costituirsi, da parte del sapere teologico-morale, strutturalmente insieme alle scienze sociali e umane
Il fatto che le scienze sociali siano costitutive della riflessione teologica non le pone sullo stesso piano della fede e la loro posizione subordinata rispetto alla fede non le rende accessorie o aggiunte5. Esse sono a vario titolo costitutive, ma non fondative della riflessione teologica (VS n.111). Non si tratta di un mero utilizzo da parte della teologia morale, ma di un’elaborazione del loro contenuto in un contesto più ampio e fondativo, quello del comunicarsi di Dio, rivelatosi uno e trino, avviene “in parole e opere", ossia attraverso la struttura costante dell'Incarnazione, dove la Parola di Dio esiste in quella dell'uomo e l'agire di Dio s'intreccia con la storia dell'uomo. In questo senso il discorso su Dio implica e comprende la realtà dell'uomo. Così il principio di Incarnazione non solo legittima, ma esige il riferimento alle scienze umane: l’evento della salvezza non è all'origine della cultura e della coscienza, suppone invece la previa consistenza libera della creatura umana nella sua concretezza storica6.
Il ricorso alle scienze umane non va chiaramente interpretato come un cedimento e una corruzione della solidità scientifica della teologia: al contrario, proprio per garantire alla stessa teologia una adeguata capacità scientifica e, nello stesso tempo, una necessaria autenticità rispetto alla fede, le scienze sociali diventano indispensabili.
L’impresa teorica della interdisciplinarietà non è certamente senza rischi, in quanto la metodologia utilizzata dagli autori per comprendere i problemi sociali dipende sia dal loro orientamento teorico che dall'oggetto preciso che intendono spiegare. La possibilità della teologia morale di avvantaggiarsi degli apporti analitici delle scienze sociali suppone preliminarmente una critica epistemologica di quelle scienze; e suppone più radicalmente una riflessione teorica sugli aspetti e i concetti fondamentali del fenomeno sociale (cultura, storia, potere, diritto, ecc.) Il debito della teologia nei confronti delle scienze sociali non può essere pensato quasi si riducesse a quello di prendere atto dei risultati; il compito è invece quello di chiarire la qualità dei problemi obiettivi.
Il riferimento dinamico dell’antropologia
Il sapere che nasce dalla fede realizza per se stesso di fatto una ripresa della cultura ambiente, e ne propone anche una virtuale critica. La teologia persegue l'obiettivo di produrre un'elaborazione riflessa di tale ripresa critica operata dalla coscienza credente offrendo ad essa supporto. E rivendica un proprio ambito oggettivo che la distingue dalle scienze sociali come la sociologia, la scienza politica, le scienze economiche e le scienze giuridiche . È da notare poi che ogni singola scienza sociale è divisa in molti diversi campi specializzati, ognuno dei quali esige speciali metodologie e si relaziona alla teologia in modi diversi. Inoltre ogni singola scienza sociale include molti approcci teorici diversi e in contraddizione tra loro. Per questa sua natura frammentata e conflittuale, fa notare G. Baum, è impossibile trovare una singola formulazione teorica della relazione tra scienze sociali e teologia7. Il compito della teologia morale diviene l’elaborazione di una strumentazione teorica che costituisca la mediazione concettuale del discorso sulla società in rapporto a concezioni culturali diverse senza snaturare o dissolvere il significato della tradizione cristiana.
Tutte le scienze sociali, anche se scaturiscono dal desiderio di costruire una buona società, considerano la società sotto un aspetto limitato8.
La teologia morale colloca il singolo fenomeno in un contesto più ampio. Essa ricerca fino a qual punto le istituzioni corrispondano all’uomo nella sua globalità, mentre le singole scienze studiano i fenomeni umani selezionando un campo legittimo, ma ristretto, di analisi. «La DSC ha un'importante dimensione interdisciplinare. Per incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici diversi e continuamente cangianti l'unica verità sull'uomo, tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si occupano dell'uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della singola persona, conosciuta ed amata nella pienezza della sua vocazione»(CA n.59).
Già Paolo VI sottolineava che “ogni disciplina scientifica non potrà afferrare, nella sua specificità, che un aspetto parziale ma vero dell’uomo”; sottolinea tuttavia anche che, all’interno di questi limiti, “le scienze dell’uomo assicurano una funzione positiva che la chiesa volentieri riconosce”(OA n.10). Il punto centrale del dialogo, quello che può allontanare il pericolo di cadere nell’eccesso di empirismo o in quello di ideologizzazione, è per le scienze sociali, come per tutte le scienze umane, un a priori che la OA bene individua: ”Se tutti sono d’accordo nella costruzione di una nuova società posta al servizio degli uomini, ancora bisogna sapere di quale uomo si tratta” (OA n.39).
Focalizzando la nostra attenzione sulla sociologia, possiamo concordare sul fatto che, abbandonando ogni pretesa esplicativa totalizzante, la sociologia diventa una scienza conoscitiva e interpretativa della realtà sociale, scienza che si caratterizza per la sua natura empirico-analitica e per l'adozione del metodo ipotetico-deduttivo. In questa sua specifica connotazione la sociologia offre quindi un indubbio contributo di conoscenza alla teologia morale per la elaborazione del suoi contenuti e per l’intelligenza critica della società: la teologia morale non può non tener conto della concreta situazione di determinati momenti storici9. CV
A sua volta, però, la sociologia può trarre utili suggestioni e indicazioni dalla teologia non solo per individuare i temi da analizzare, ma anche per cogliere in essa una sorta di coscienza critica di cui il ricercatore ha indubbiamente bisogno. Sotto quest’ultimo profilo, i riferimenti possono essere molteplici: soffermiamoci pertanto solo su due particolarmente emblematici.
In primo luogo, l'essenzialità di una visione antropologica cristiana che ponga al centro dell'attenzione sempre Ia persona umana. Occorre infatti riconoscere che la letteratura-sociologica spesso rischia di concepire riduzionisticamente la persona nei termini di un fascio di ruoli, oppure come un essere del tutto eterodiretto e ultrasocializzato. « La necessità metodologica e l' a priori ideologico conducono le "scienze sull'uomo" troppo spesso a isolare, nella moltitudine delle situazioni, qualche comportamento umano per darne una spiegazione che pretende di essere globale, o almeno un'interpretazione che si vorrebbe totalizzante a -partire da un punto di vista quantitativo- o fenomenologico. Questa riduzione "scientifica" tradisce una pericolosa pretesa. Privilegiare così tale aspetto dell'analisi significa mutilare l'uomo e, sotto le apparenze di un processo scientifico, rendersi incapaci di comprenderlo nella sua totalità » (OA n. 38). Paolo VI fa riferimento a « un punto di vista puramente quantitativo e fenomenologico » quale illegittimo punto di vista da cui procedere verso un'interpretazione totalizzante.
La consapevole delineazione della parzialità dell'approccio sociologico esige il riferimento a una concezione più comprensiva dei fatti sociali, che nessuna « verifica » empirica consente di fondare.
La riflessione critica - in concreto la riflessione volta a elaborare un'antropologia filosofica e teologica - deve rendere evidente il carattere parziale e congetturale dei modelli antropologici che le scienze sociali a volte pretendono derivati dalla rilevazione empirica. Così accade tra i fautori del pensiero postmoderno, come evidenzia G. Angelini a proposito di Lyotard: “la descrizione della dinamica storica trapassa in fretta in teoria. Viene rimosso il compito di chiarire la qualità del mutamento culturale e subito viene perseguito l'obiettivo di una nuova teoria idonea alla codificazione dei reperti empirici”10.
Alla totalizzazione teorica, quando è indebitamente pretesa dalle scienze sociali, consegue la totalizzazione pratica: « Non bisogna essere meno attenti all'azione che le scienze sull'uomo possono provocare dando origine alla elaborazione di modelli sociali da imporre poi come tipi di condotta scientificamente provati » (OA n. 39).
L'Octogesima adveniens riconosce al campo sociologico della ricerca empirica sull'umano soprattutto un compito critico-negativo, e in tal senso liberante: « Esse (scienze sull'uomo) possono dilatare le prospettive della libertà umana offrendo un campo più largo di quello che i condizionamenti già calcolati lasciavano prevedere » (n. 40); e cioè, esse ci possono informare su contingenti condizionamenti che una volta non apparivano come tali alla consapevolezza umana, ma piuttosto apparivano condizioni « naturali » e dunque sfuggivano anche alla possibilità pratica di correzione. Ma, per realizzare la possibilità pratica così dischiusa, occorre aggiungere alla denuncia del «condizionamento» l'anticipazione della figura più piena e integra dell'umano, quale solo una considerazione morale e non « scientifica » può proporre: « Potranno anche aiutare la morale sociale cristiana - dice Paolo VI delle scienze umane e sociali in particolare - che vedrà restringersi certamente il suo campo allorché si tratta di proporre certi modelli sociali », nel senso che alla proposta di tali modelli essa non potrà pervenire immediatamente procedendo da affermazioni ideali di valore universale, ma dovrà verificare storicamente la praticabilità e il modo di operare di quei modelli quando essi vengano iscritti nella complessa rete di condizionamenti obiettivi, operanti a livello di società effettiva; « mentre la sua funzione di critica e di superamento diventerà più forte mostrando il carattere relativo dei comportamenti e dei valori che tale società presentava come definitivi e inerenti alla natura stessa dell'uomo » (OA n.40); e cioè, gli aspetti della vita sociale che la ricerca empirica manifesta come contingenti e legati a una situazione storica determinata propongono alla teologia morale il compito di ridefinire quelle « profondità dell'essere umano » - cui si allude subito dopo nel testo della lettera - che mai possono essere dette nella forma del puro concetto, ma sempre comportano di necessità il riferimento alle rappresentazioni offerte dall'esperienza sociale e il loro continuo superamento.
L’antropologia cristiana va quindi intesa come un riferimento dinamico, che, assumendo la storicità propria della riflessione teologica, implichi una riformulazione adeguata di se stessa, aperta agli elementi validi che la sociologia e le scienze sociali in generalei vanno apportando al processo11. Pretendere di porre in un semplice confronto antropologia e scienze umane, implicitamente e riduttivamente presuppone un'idea di antropologia configurata come somma di principi astratti o fondamentalisticamente dedotta dalla Scrittura12. Il confronto non può assumere la forma di comparazione tra i rispettivi asserti; deve invece assumere la forma del dìbattito reso possibile dal comune referente reale al fine di chiarire la qualità dei problemi obiettivi. Per potersi confrontare con la sociologia, la teologia morale deve misurarsi con i fenomeni della società complessa e le questioni obiettive che essa solleva come quella della necessità del nesso stretto che lega il soggetto individuale alla qualità dei rapporti sociali.
La teologia morale è consapevole che l’esperienza sociale e le istituzioni civili non sono pura matter of fact, ma portano inscritti in sé significati, che soltanto per riferimento ad un’antropologia possono essere intesi e valutati. E, d’altra parte, le evidenze etiche non si danno in modo “razionale”, ma in forma storica attraverso la mediazione dei rapporti socio-culturali 13.
La centralità dell'uomo, così intensamente difesa e rivendicata da tutta la DSC, viene offerta agli scienziati sociali come luogo concettuale di convergenza, di collaborazione e prima ancora di confronto. «Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per comprendere la centralità dell'uomo nella società» (CA n.54) CV. La teologia morale ha il compito di definire il criterio o elaborare compiutamente la proposta antropologica per articolare adeguatamente il rapporto con le scienze sociali, più che limitarsi ad offrire una prospettiva di dialogo culturale.
La riflessione della teologia morale, nella sua specificità teologica, non integra solo contenuti statistici ma elabora con un metodo proprio (teologico) le idee e i metodi delle diverse discipline. “La carità non è un’aggiunta posteriore, quasi un’appendice a lavoro ormai concluso delle varie discipline, bensì dialoga con esse fin dall’inizio. Le esigenze dell’amore non contraddicono quelle della ragione (CV 30).
Ecco dunque la necessità di mettere a punto un'adeguata criteriologia in modo che il metodo, per essere autenticamente teologico, possa svolgersi lungo l'intero suo percorso sotto il segno esplicito della riflessione di fede insieme agli apporti delle scienze sociali. “Il criterio ultimo e decisivo di verità non può essere, in ultima analisi, che un criterio esso stesso teologico. È alla luce della fede, e di ciò che essa ci insegna sulla verità dell’uomo e sul significato ultimo del suo destino, che si deve giudicare della validità o del grado di validità di ciò che le altre discipline propongono”(Libertatis nuntius n.10).
Ciò che è indispensabile riguardo a queste scienze, è la comprensione del loro linguaggio e dei loro procedimenti scientifici.
E' necessario cioè che il teologo moralista sia in possesso di quella strumentazione concettuale e contenutistica in modo da rendere la sua analisi pienamente teologica e veramente competente. E accolga così una scommessa, o addirittura una sfida interessante, ovvero la interdisciplinarietà come tecnica metodologica per comprendere la complessità della società.
Così la teologia morale svolge opera di mediazione reciproca di significato tra diverse modalità di comprensione.
In questa ottica è necessario approfondire ulteriormente l’apporto antropologico della teologia morale.
Le buone ragioni dell’attore sociale
Sono intuibili nell’Octogesima Adveniens e nell’ultimo passo citato della CA CV alcune motivate preoccupazioni e altrettanti richiami: il rischio, da parte delle varie discipline che studiano la realtà sociale, di cedere allo scientismo, vale a dire il ritenere vero solo ciò che è empiricamente dimostrabile, chiudendosi ad ogni rilievo etico e trascendente. Le cause sono individuate da Benedetto XVI nell”l’eccessiva settorialità del sapere, la chiusura delle scienze umane alla metafisica. Le difficoltà del dialogo tra le scienze e la teologia sono di danno….viene ostacolata la visione dell’intero bene dell’uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano”(CV 31) E' così denunciata la pretesa veritativa di quegli asserti scientifici, che riducendo la persona umana a semplice oggetto, non ammettono altre prospettive - quindi altre «verità» - che la propria (psicologismo, sociologismo, economicismo, ecc.).
“Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale dell’uomo”(CV 30). Tale pretesa scientista emerge in due forme apparentemente opposte.
La prima si può cogliere nel fatto che sociologia, psicologia e antropologia culturale operano nel senso di imporre alla consapevolezza pubblica l'essenziale mediazione culturale della coscienza14. La cultura non è pensata da tanti analisti sociali come un’istanza che si mette dì mezzo tra coscienza e verità: la cultura semplicemente sostituisce la verità, e da sé sola determina la forma che assumerà la coscienza.
La coscienza dell'uomo deriverebbe la sua forma unicamente dalla cultura. Le conseguenze di questo modo di pensare si possono facilmente intuire: non ci sarebbe alcun cielo fisso di verità, che offra un termine di paragone per confrontare e apprezzare le diverse culture15.
Dall’altra parte, l'índividualismo metodologico insorge a ragione contro il determinismo sociologico che presuppone la spiegazione dei fatti sociali in base alle tradizioni, alle mentalità, alle cause. Esso afferma la libertà dell'individuo16. Ma questo attore dell'individualismo metodologico è un attore “razionale” nel senso di calcolatore: cerca di massimizzare il suo potere, i suoi interessi. La sua decisione è razionale nel senso del calcolo dei vantaggi e degli inconvenienti; calcolo molto limitato, beninteso, ma calcolo comunque17. Tutto quel che non rientrerebbe in questo modello di comportamento sarebbe irrazionale, e non libero18. Questo approccio rinvia dunque continuamente tutto l'universo dei fini, degli obiettivi, dei valori nella sfera dell'irrazionalità, ed innalza allo statuto di sola decísione libera la decisione sui mezzi.
Le due forme di scientismo rendono impossibile qualunque rapporto interdisciplinare tra scienze sociali e teologia morale. La scienza viene considerata come momento tecnico avalutativamente asettico e la riflessione teologica può fornire tutt’al più delle linee guida su come utilizzare i risultati delle scienze in un rapporto che rimane extradisciplinare, in quanto interviene alla fine a modo di giustapposizione senza entrare nel percorso della ricerca scientifica. CV
La teologia morale prende sul serio, in primo luogo, il discorso degli attori sociali e fornisce al sociologo «una gamma di tipi di razionalità»: oltre alla razionalità utilitaria, la razionalità teleologica, assiologica, tradizionale, cognitiva19. È da notare che, proprio a motivo della visione riduttiva della razionalità umana, molte spiegazioni sociologiche fanno appello a forze oscure che superano l'attore, siano esse l'inconscio individuale, l'alienazione o una struttura sociale elementare inconscia ( Lévi-Strauss): presuppongono troppo facilmente degli attori irrazionali, o incomprensibili all'osservatore20.
La teologia morale invita, in secondo luogo, a identificare le «buone ragioni» che permettono di comprendere il comportamento di un attore e la logica della sua azione. Si tratta di una razionalità molto più ampia della razionalità strumentale. Essa include in realtà tutte le «buone ragioni » (che possono essere anche morali, religiose ecc.) che fanno sì che un attore agisca in un certo modo. L’attore individuale o collettivo, certamente strategico, ma anche dotato di una storia e di un'identità, con progetti professionali ed extraprofessionali, con le sue pulsioni, viene colto partendo dall'osservazione di istituzioni multiple. Ugualmente, la situazione d'azione, in quanto momento storico, ma anche “mitico” e simbolico, spazio circostanziato e singolarmente complesso di oggetti e soggetti più o meno finalizzati, ricopre un ruolo composito.
In relazione ai diversi approcci sociologici la teologia morale può e deve avvalersi di una metodologia fenomenologica, intesa a evidenziare non solo le caratteristiche salienti della vita sociale contemporanea, ma ad elaborarne il contenuto che viene offerto alla consapevolezza per far emergere la multidimensionalità dell’azione del soggetto umano, che si dispiega nell’esperienza sociale. Si tratta di scoprire il senso dei diversi aspetti della vita sociale, ivi compresi comportamenti tipici dei gruppi, pregiudizi della tradizione e del costume, dischiudendoli come grammatica di un progetto pratico, capace di configurare regole e istituzioni per l'agire associato: si evita di emarginare il problema morale come se esso e la libertà apparissero solo alla fine, quando la vita sociale è già istituita, dalla cui istituzione nelle concrete vicende storiche sarebbe invece assente CV ; si evita cioè l'esteriorità tra sapere sulla società e appello alla libertà/giustizia, e in radice alla fede21.
La teologia morale fa apparire così la necessità di superare una concezione materialistica della vita civile e della vicenda storica, bloccate su un complesso di dati e di regole funzionali, senza che sia possibile in esse e attraverso i simboli da esse istituiti rimandare alla consapevolezza di sé della persona umana. Tale consapevolezza è insieme apertura incondizionata e posizione di sé e della propria libertà, è disponibilità (fede) e opera storica. Questa dinamica dell'agire sociale va rilevata se non si vuole smarrire la soggettività, parlando di società e della sua configurazione libera e giusta. Anche in essa l'uomo è riportato a sé, ma per scoprire l'appello a fidarsi dell'altro e degli altri, e a compiere individualmente e collettivamente quelle opere che esprimono il fidarsi reciproco (anche nella forma della garanzia e della difesa). Non si tratta di contemplare/attuare un modello di società riflesso da una coscienza astratta, ma di alimentare la vita civile ad una coscienza originariamente aperta al bene e in definitiva alla fede nell’Evangelo.
In tal modo la teologia morale stimola le scienze sociali a diventare scienze dell’azione sociale, comprensione dei suoi molteplici significati. Questi significati sono prima di tutto, afferma A.Schulz, quelli che gli attori sociali attribuiscono alle loro azioni: i fenomeni della vita soggettiva entrano così nel campo della sociologia. La struttura di significato del mondo sociale è multiforme e le molte sfere di significato si intrecciano e determinano le modalità specifiche di stabilimento del significato stesso22.
Il problema del senso
Oltre l’apporto antropologico, la teologia morale può contribuire ad approfondire- anche sotto il profilo sociologico - una questione che sta diventando sempre più cruciale nella società d'oggi: il problema del senso che, a sua volta, si declina in termini di « perdita di senso », di « crisi di senso» e di « non senso », con tutte le conseguenze individuali e collettive alienanti e patologiche.
Alcuni interrogativi aiutano a chiarificare la questione: nella sociologia quali fenomeni sono importanti al fine di una conoscenza scientifica? Che cosa vale la pena di indagare? Il ricercatore può mostrarsi disponibile verso qualsiasi interesse conoscitivo? La delimitazione proposta da M.Weber di un’analisi puramente scientifica è sufficiente a dimostrare che non esiste alcuna possibilità di fondare i giudizi di valore?23
Negli ultimi decenni si è affermata nelle scienze sociali la egemonia di paradigmi scientisti - dallo struttural-funzíonalísmo alla teoria dei sistemi e alla teoria della scelta razionale – che hanno profondamente spostato l'asse delle discipline socíologíche e politologiche in senso antifilosofico, nonostante le lodevoli eccezioni.
La teoria tende a diventare, in questo quadro, un mero supporto alla generalizzazione empirica24.
All’origine di questa tendenza possiamo porre la famosa controversia, importante per la teologia morale, tra una sociologia neutra e oggettiva, libera dai valori, e una sociologia ermeneutica che vede se stessa come dipendente dal punto di vista e dagli ideali sociali del ricercatore. La sociologia oggettiva richiede al ricercatore di essere distaccato dalle sue convinzioni personali e cerca delle conclusioni accettabili universalmente, con metodi di ricerca assimilabili a quelli delle scienze naturali24.
Da questa prospettiva il compito di una scienza della società è stato precipuamente inteso come il compito di scoprire e formulare leggi del comportamento sociale, parallele per generalità e capacità predittiva alle leggi con cui spieghiamo i fenomeni naturalí26. Un posto a parte, pur all'interno di questo paradigma, va al naturalismo storico elaborato da Marx, all'interno del quale troviamo il più ambizioso tentativo di collegare la scienza del sociale alla formulazione di leggi storiche che spiegano la conflittualità e il potenziale trasformativo presente in determinate formazioni sociali, leggi storiche che tuttavia posseggono la generalità e inesorabilità di quelle naturali.
La versione contemporanea di questo progetto di scienze sociali è individuabile nel paradigma sistemico, il vero erede dell'antica ambizione di individuare le leggi del sociale.
Antagonista naturale del paradigma scientista è il paradigma ermeneutico. Figlio della reazione antipositivista tardo-ottocentesca e della intuizione diltheyiana di una distinzione insopprimibile fra i metodi delle scienze naturali e quelli appropriati per le scienze dello spirito, il paradigma ermeneutico è intrinsecamente scettico nei confronti della possibilità di individuare e formulare "leggi" del comportamento sociale. All'obiettivo di spiegare i fatti contrappone l'ideale metodologico del comprendere l'azione sociale. Alla preferenza per il trattamento quantitativo dei dati, che permette maggiore affidabilità e maggiore predittività a fronte di una tecnicizzazione degli explananda, il paradigma ermeneutico contrappone una preferenza per i metodi storico-comparativi, che consentono di mantenere gradi notevoli di affidabilità a fronte di una formulazione dei quesiti di ricerca considerevolmente più vicina alla dimensione vissuta dell'esperienza e del senso comune27.
La sociologia ermeneutica esige dai ricercatori anche il distacco dai pregiudizi e insiste che, se i ricercatori non chiarificano la loro relazione storica con l’oggetto di studio e se non diventano coscienti dell’ideale di società che essi hanno in mente, le loro conclusioni per quanto oggettive in apparenza, saranno distorte.
Essa pone in relazione scienza e impegno, e sostiene che la ricerca della verità sociologica è nello stesso tempo un atto che trasforma la società28. Tenta di superare i pregiudizi e in questo senso è libera dai valori, ma anche è impegnata per giuste cause ed è convinta che i suoi studi promuoveranno il benessere delle comunità umana29. A motivo del legame tra scienza e impegno, sembra quindi improbabile che la fede personale del sociologo non faccia differenza nelle investigazioni sociologiche.
Secondo questo approccio la sociologia neutrale circa i valori è quindi un’illusione. Vedere, leggere e sistemare i dati dipende da una serie di presupposti, che devono essere esaminati e per i quali i ricercatori devono assumere responsabilità.
In molti casi coloro che sinceramente pretendono la neutralità si identificano con i valori dominanti della loro società. Questa tendenza conservatrice è rinvigorita dall’attuale contesto di «prívatizzazíone della scienza»: imperativi strategici di agenzie di stato, o esigenze commerciali d'impresa, colpiscono direttamente (ritiro dei papers, divieto d'accesso a stranieri) o corrodono dall'interno (appropriabilità di un risultato teorico) un principio basilare, apparentemente indiscusso, della comunicazione scientifica: pubblicità, libertà, non negoziabilítà etc. della circolazione di conoscenze30.
Di qui l'aggravamento di tensioni circa valori, identità e perdita di autonomia che la recente sociologia delle comunità scientífíche rileva. La relazione tra scienza e valori privatistici veicolati dai modellí organizzativi richiede, in ogni caso, una considerazione specifica. Qui, riportando il discorso al livello «interno» dell'evoluzione delle discipline, va sottolineato un aspetto particolarmente delicato della relazione inedita - che si va delineando - tra le dimensioni epistemologica, etica e sociologica.
La partecipazione del discorso sociologico a quell'autocomprensione scientista della modernità occidentale, che espelle la razionalità rispetto ai valori e alle considerazioni di carattere normativo dalla logica della riflessione scientifica, ha promosso, come regola vincolante del proprio discorso, l'inaccettabilità della problematica morale in tutte le forme diverse da quelle di un'ideologia socialmente condivisa, e perciò eterogenee rispetto al discorso sociologico31.
C’è il pericolo che un sapere di questo tipo consolidi ulteriormente la posizione di potere delle classi dominanti in seno ad una società. Nelle concezioni sociologiche l’analisi puramente descrittiva può esercitare un influsso conservativo e quindi ideologico32.
In conclusione le scienze sociali avalutative presentano una decisione presa già in partenza a favore di una razionalità puramente tecnica. Il prezzo che esse debbono pagare per protestare la loro `laicità' è la distanza pregiudiziale da quegli interrogativi che sono invece inevitabili per la coscienza. E dunque la distanza anche dal punto di vista più proprio della persona vivente. Prospettano la possibilità di un sapere addirittura senza soggetto empirico: un sapere certo, "oggettivo", al di sopra di ogni possibilità di dubbio è un sapere che prescinde dal riferimento al soggetto. Alla radice sta il presupposto che il metodo di ogni sapere potrebbe e dovrebbe essere definito a monte rispetto ad ogni esercizio effettivo della ricerca.
Le critiche alla pretesa del sapere scientifico di valere quale modello universale del sapere rimandano al profilo per il quale il sapere si costituisce sempre nel contesto di una pratica umana, la quale coinvolge di necessità l'identità del soggetto, dunque la sua memoria e la sua storia, come illustra Gadamer33.
Di una tale identità, che obiettivamente funge quale criterio del sapere a proposito della realtà, il soggetto stesso non ha mai sapere adeguato; neppure può progettarlo: tale identità rimane eccedente a qualsiasi codice oggettivo. In tal senso, si deve dire che il sapere accade al soggetto prima e più di quanto esso sia una sua costruzione; il soggetto accede a se stesso, prende dunque coscienza di sé, dietro la sollecitazione a lui proposta da istanze che lo superano.
In questa ottica si muove il sapere critico della teologia, che trova le proprie radici nella pratica cristiana del tempo; tale pratica comporta di necessità la ripresa delle figure di senso proposte alla coscienza del credente dalla cultura plasmata dalle scienze umane. La ripresa non assume la forma della semplice adesione a quelle figure; assume invece la forma di una loro rinnovata interpretazione, basata sulla percezione significativa del mondo e della società propiziata dalla fede. La ripresa non può avere la forma di una semplice acquisizione di saperi analitici, in ipotesi utili ai fini dell'agire sociale; essa comporta invece di necessità la rinnovata significazione di quelle figure in modo da rendere ragione del nesso obiettivo e indubitabile che lega la coscienza dell'uomo contemporaneo alle tradizioni culturali, tradizioni che rimandano la coscienza individuale a un'istanza religiosa e trascendente, che soltanto mediante la scelta individuale può essere determinata. Tale scelta assume sempre e comunque la forma dell'atto di fede.
Il credente ha bisogno di essere “critico”, il ministero ecclesiastico deve aiutarlo in questo compito: la teologia morale ha quindi un servizio urgente da rendere alla buona qualità del ministero ecclesiastico.
L’inserzione del teologo nel campo delle scienze sociali offre da questo punto di vista un terreno di sperimentazione particolarmente stimolante. In un dialogo costante con le altre razionalità, può contribuire in maniera critica e costruttiva alla riflessione sulla società. Può partecipare ad una riflessività in atto aperta alla creatività, riferendo se stesso non ad una ideologia astratta, ma ad una comunità di interpretazioni e a delle tradizioni viventi incarnate nelle pratiche concrete. Egli rende un servizio salutare alla scienza in generale, chiarendo le forme concrete nelle quali si produce la transizione civile, le ragioni che presiedono ad essa e quindi i rimedi possibili. In tal modo ha a cuore la causa dell’uomo,
Nello stesso tempo la riflessione teologica può guadagnare in qualità e rigore nel campo sociale. Volgendosi verso i luoghi dove si esercita la responsabilità umana, verifica la teologicità della sua riflessione e risponde con una nuova creatività sul piano più fondamentale. Se la teologia può portare un contributo salutare alle scienze sociali, essa è anche interrogata nella sua capacità di raggiungere l’uomo concreto che cerca di agire con responsabilità al cuore delle realtà di questo mondo34. Il confronto con le situazioni concrete stimola anche il teologo a lasciarsi interpellare dal mondo vissuto tanto dai credenti che dai non credenti, nella fedeltà alla propria posizione di soggetto ecclesiale35. “Questo significa che le valutazioni morali e la ricerca scientifica devono crescere insieme e che la carità deve animarle in un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione (CV 30).
GIANNI MANZONE
La DSC per es. indica il bene comune come obiettivo dell’attività economica e politica: i contenuti del bene comune però non sono individuabili a priori, come diretta derivazione della visione cristiana, ma sono postulati dalle situazioni storiche (PT n.20).
Il problema, secondo Verstraeten, non è tanto la dipendenza dalle scienze sociali ma il fatto ch il loro ruolo è minimizzato: c’è una tensione tra l’apprezzamento formale per il loro contributo ad una conoscenza migliore della situazione sociale e la loro sottovalutazione. Si dà più attenzione a criticare il rischio di ideologia nelle scienze sociali che a prendere in conto i risultati della loro ricerca e le loro giustificate critiche. Esse tendono ad essere pensate in un ruolo secondario e ancillare (CA 54-55). La sovrastima della conoscenza teologica, si domanda Verstraeten, porta a dare poco spazio alle scienze sociali nelle recenti encicliche? (J.VERSTRAETEN, “Re-thinking Catholic Social Thought as Tradition”in AA.VV., Catholic social Thought: Twilight or Renaissance?, Leuven University Press 2000, pp. 59-77)
“Le forme di sapere utili a conoscere il contesto ne sono implicate originariamente e costitutivamente”(G.CREPALDI-S.FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, o.c., p.99).
Il fondamento e il centro della teologia come sapere critico della fede è la Rivelazione di Dio in Cristo. “Dio si rivela in fatti e parole storiche [...]. I fatti della Rivelazione si illuminano e precisano nel loro significato salvifico con l'aiuto dell'antropologia, economia e sociologia che ci danno una comprensione maggiore della struttura sociale dei popoli nei quali Dio agisce secondo la Scrittura»(L. UGALDE, Teologia y mediacion…cit. da G.BEDOGNI, o.c., p. 126).
I. SANNA, “Il ruolo delle scienze umane in teologia”, in I. SANNA (ed.) Il sapere teologico ed il suo metodo, EDB, Bologna 1993., p. 143. Si veda anche I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana, Città Nuova, Roma 1996
V.CESAREO, “Scienze sociali e insegnamento sociale della Chiesa: aspetti epistemologici e metodologici”in AA.VV., Il Magistero sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1988
Con la fine delle grandi narrazioni “la vita dell'uomo sarebbe possibile soltanto nella forma del bricolage; ci si serve certo dei materiali simbolici disposti dalla cultura; ma, appunto, soltanto ci si serve. Che il rapporto del soggetto individuale con la cultura sociale nella stagione recente assuma di fatto tale forma, è innegabile; evidenti sono però insieme i tratti di precarietà della figura del soggetto che ne consegue e quindi il profilo di crisi che comporta la transizione civile”( G.ANGELINI, “Teologia, Chiesa e cultura nella stagione postmoderna” in G.ANGELINI-S.MACCHI ED., La teologia del novecento, Glossa, Milano 2008, pp.702; anche pp.739ssg.)
L’antropologia cristiana tiene conto che «in Cristo [...] ci è data un'immagine e un'interpretazione determinata dell'uomo, un'antropologia plastica e dinamica, capace di incarnarsi nelle più diverse situazioni e contesti storici, mantenendo però la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali e i suoi contenuti di fondo. Ciò riguarda in concreto la filosofia come il diritto, la storiografia, la politica, l'economia [...]. Incarnare e declinare nella storia - per noi nelle vicende concrete dell'Italia di oggi - questa interpretazione cristiana dell'uomo è un processo sempre aperto e mai compiuto» ( Intervento conclusivo di S. E. Card. Ruini al III Convegno ecclesiale di Palermo (20-24 novembre 1995), in Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, p. 196).
Per questa problematica ci permettiamo di rimandare a G.MANZONE, Libertà cristiana e istituzioni, o.c., pp.36 ssg.
Nel pensiero postmoderno pare affermarsi l'idea che tra le forme della vita comune e le forme della percezione significativa del reale ad opera del singolo sussista un incolmabile iato. Nelle formulazioni più radicali, sarebbe da superare come pregiudizio obsoleto l'idea stessa di
soggetto
E’ questo il contributo fondamentale dell’individualismo metodologico, dove la decisione è per definizione l'affermazione di una libertà rispetto ai sistemi di cui fa parte l'attore, contrariamente a quel che propongono le spiegazioni in base alla tradizione. Senza il postulato di questa libertà il termine «decisione» non ha più alcun senso.
Questa posizione è bene illustrata da R. Boudon (Il senso dei valori, Il Mulino, Bologna 2000) attraverso uno schema fatto di cerchi concentrici, dove si passa progressivamente dal modello razionale utilitario, al centro, all'impulsivo e all'irrazionale, alla periferia. Essa sembra dimenticare la penetrante conclusione di Simmel nella sua analisi del denaro: «[il puro pensiero razionale] può soltanto fornire i mezzi (...), è completamente indifferente al fine pratico che li sceglie e li realizza» (G.SIMMEL, La differenziazione sociale, Laterza , Bari 1995, p. 559).
Per Boudon esistono due modi di spiegare i fenomeni sociali; o ci si richiama alle consuetudini, alla mentalità, alla tradizione; e si nega così la libertà degli attori pur non facendo spesso altro che proiettare sul soggetto osservato i ragionamenti propri del contesto dell'osservatore; oppure si cerca di comprendere, e si è allora portati a cercare le «buone ragioni» che hanno portato un dato soggetto ad adottare tale comportamento, o ad avere questa o quella credenza (R.BOUDON, A lezione dai classici, Il Mulino, Bologna 2002).
Si evita in tal modo sia la deduzione delle istituzioni con procedimento essenzialistico, sia la loro produzione tramite fittizi consensi universali, sia la loro imposizione per divina rivelazione positiva.
A.SCHULZ, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt. Eine Einleitung in die verstehende Sociologie, Suhrkamp, Frankfurt 1991 p.204, cit. da A.GOMEZ-MULLER, Ethique, coexistence et sens , Desclèe de Brower, Paris 1999, p.187
M.Weber distingue la “relazione di valore” dal “giudizio di valore”. La "relazione di valore " è il rapporto tra certi ordini di rilevanza - le cose che riteniamo importanti in un fenomeno - e certi valori "universali". Se vogliamo comprendere fenomeni come la società capítalistica, la secolarizzazione della politica, l'affermarsi di una mentalità scientifica, non possiamo non ordinare e selezionare l'infinità di aspetti di cui ciascuno di questi fenomeni consiste secondo alcuni ordini di priorità che fanno riferimento a valori - nel caso del capitalismo, ad esempio, valori di efficienza, produttività, autonomia della ragione, autodeterminazione morale della persona, e così via. Questi valori orientano la nostra attività di ricerca ma non sono valori "privati". Non sono dei valori a cui privatamente possiamo dedicare nostre energie (come fa chi crede nell'eguaglianza, nella difesa dell'ambiente, o nella lotta contro la criminalità organizzata). Al contrario sono dei valori "istituzionalizzati", "cristallizzati" nella formazione sociale e culturale entro cui si iscrive il fenomeno da comprendere, costituiscono un orizzonte la cui comprensione è condicio sine qua non della comprensione del fenomeno stesso. Quindi questo tipo di "relazione con il valore", di "valorialità" non pregiudica l'oggettività della conoscenza sociologica, non comporta che i risultati della nostra indagine siano soggettivi nel senso di valere per alcuni e non per altri. La verità scientifica, afferma Weber, « è soltanto ciò che esige di valere per tutti coloro che vogliono la verità» (Cit da A.FERRARA-M.ROSATI, Affreschi della modernità, Carocci, Roma 2005,, o.c., p.190).
Diverso è il caso del "giudizio di valore", da cui il ricercatore è tenuto ad astenersi nel nome della "avalutatività" - il giudizio di valore è un giudizio, che per Weber rimane insindacabilmente soggettivo, sulla priorità di un valore (ad esempio la libertà) rispetto a un altro (ad esempio l'eguaglianza).
Weber non risolve la tensione che rimane implicita nel suo pensiero. Se non esistono valori oggettivi, in ultima analisi anche quelli impliciti nella relazione di valore sono in qualche modo arbitrari, benché socialmente condivisi.
A. FERRARA, “iI progetto di una filosofia sociale” in AA.VV.Pensare la società, Carrocci, Roma 2001, p.19-40.
Tale posizione è detta naturalismo da R.J.BERNSTEIN. La ristrutturazione della teoria sociale e politica, Armando, Roma 1980 e da A.SCHUTZ, La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna 1974. Il naturalismo è insufficiente in quanto da semplicemente per scontata questa realtà sociale, quale fondamento presupposto ma non chiarito delle scienze sociali. Esso non spiega il modo in cui questa realtà sociale si costituisce e permane, non spiega il suo essere intersoggettivo, nè come coloro che agiscono in essa interpretano, col pensiero e col senso comune, le loro azioni e quelle degli altri. Cfr anche P.DONATI, Introduzione alla sociologia relazionale, Angeli, Milano 1986
In questa forma estrema il paradigma scientista lo si può rinvenire soltanto nell'opera di Comte e di Pareto. Ma ne esistono versioni più sofisticate. Ad esempio, in quella durkheimiana, il compito della sociologia è identificato con la spiegazione dei fatti sociali a mezzo di altri fatti sociali e l'elaborazione metodologica si rende assai più complessa.
Anche in questo caso troviamo varie versioni del paradigma. La versione weberiana è filtrata attraverso una sofisticata argomentazione filosofica intorno al nesso tra indagine scientifica e valori, e intorno alla possibilità dell'oggettività nelle scienze sociali.
Esiste poi una versione "microsociologica" del paradigma, in cui l'esercizio ermeneutico viene prevalentemente applicato alla dimensione dell'interazione faccia a faccia. È il progetto metodologico sotteso agli approcci di Mead, di Garfinkel, di Goffman (A.FERRARA-M.ROSATI, Affreschi della modernità, o.c., p.172ssg.).
Molti sociologi, superando i pregiudizi marxisti, cercano con cura di distinguere tra le diverse tendenze religiose e di valutare l’effetto di queste tendenze sul benessere umano e sul superamento dell’alienazione,
P.JEDLOWSKJ, “Sull’etica la critica e la memoria” in C.VIGNA, a cura di , Etiche e poltiche della postmodernità, Vita e Pensiero, Milano 2003, p.125-137
Espressioni come "sacralità della vita umana" o "dovere morale" suonano estranee tanto in un seminario di sociologia quanto nelle stanze asettiche di un ufficio burocratico.
Il termine disfunzionale assume allora un’accezione di valenza negativa, per es. in T.PARSON, Il sistema sociale, Comunità, Milano 1965.
Cfr M. FERRARIS, Storia dell'ermeneutica, Bompiani, Milano 1988; G. ACCORDINI, “Apologia del profilo scientifico. Epistemologia della scienza, epistemologia teologica ed epistemologia della fede” in G.ANGELINI-S.MACCHI ED., La teologia del novecento, Glossa, Milano 2008, pp.381-412.
Stimolante a questo proposito, anche se ristretta unicamente all’ambito filosofico, può essere l’idea walzeriana di critica. Per una sintesi critica, cfr. M.ROSATI, “Un pregiudizio a favore della speranza. MIchael Walzer e l’idea di critica sociale” in AA.VV., Ragionevoli dubbi, Carocci, Roma 2001, pp. 144-159.